• Museo Orientale ‘Umberto Scerrato’
  • Reperti dal Sudan orientale, Eritrea e Etiopia

    Reperti dal Sudan orientale, Eritrea e Etiopia

    Il coinvolgimento de ‘L’Orientale’ di Napoli nelle ricerche archeologiche sul suolo africano ebbe inizio nei primi anni del XX secolo. Paribeni e Gallina condussero nel 1905-1906 una campagna di scavi ad Adulis (Eritrea), sul Golfo di Zula, dove sorgeva uno dei più importanti empori africani lungo la via delle spezie in epoca romana e bizantina. I risultati di questi scavi permisero di identificare negli strati sottostanti la città aksumita di epoca tardo-antica alcuni livelli di occupazione databili al I-II millennio a.C. Lo scavo di questo sito è stato ripreso nel 2010 da una missione italo-eritrea. Nel 1973 e 1974 Ricci condusse le prime due campagne della Missione Archeologica Italiana in Etiopia. Nella metà degli anni Settanta del Novecento nacque la Missione Archeologica de ‘L’Orientale’ in Alto Egitto (Naqada) diretta da Barocas. Negli anni Ottanta, oltre alla missione a Naqada, vennero avviate due missioni, in Sudan (Delta del Gash, presso Kassala) e in Egitto. La missione nel Delta del Gash ha potuto anche costituire una cospicua collezione di reperti ceramici datati tra il IV millennio a.C. e il XVIII secolo d.C. Ciò ha permesso all’Ateneo di possedere una collezione unica di materiali che testimoniano tutta la sequenza culturale dei bassopiani eritreo-sudanesi dal Neolitico in poi.

  • Sigilli del Vicino Oriente antico

    Sigilli del Vicino Oriente antico

    I sigilli della collezione de ‘L’Orientale’ di Napoli rappresentano un ampio ventaglio di testimonianze della glittica vicino-orientale antica, perché assai vari per tipologia, datazione, tematiche raffigurate, spettro geografico-culturale e materiali impiegati. Sul piano tipologico sono rappresentati sia i sigilli cilindrici sia quelli a stampo; le due tipologie documentano un ampio lasso di tempo di uso dei sigilli, comprendendo esemplari che si datano dalla seconda metà del III millennio a.C. al IV-V secolo della nostra era, vale a dire dall’età accadica a quella sasanide. Le tematiche raffigurate rappresentano un campione significativo del repertorio iconografico di questa glittica e sono in diretta relazione sia alla cronologia dei sigilli sia alla loro presumibile provenienza geografica. Quanto a quest’ultima, nulla si può dire con sicurezza. Tuttavia, alcune tematiche sono chiaramente riconoscibili come mesopotamiche, altre risultano invece di derivazione mesopotamica ma re-interpretate secondo tradizioni locali (Elam, Alta Mesopotamia, Anatolia), laddove la cultura nata e sviluppatasi nella Terra fra i due Fiumi si era diffusa con la sua potenza di irradiazione. Quanto ai materiali lo spettro è anch’esso ampio e si estende da vari tipi di pietra comune alle pietre semi-preziose, quali la corniola, l’onice e il quarzo.

  • Sculture dell’India di Nordovest

    Sculture dell’India di Nordovest

    Nell’VIII secolo si osservano gli ultimi episodi rilevanti di committenza artistica da parte dell’élite politica filo-buddhista e delle comunità buddhiste dell’estremo Nordovest dell’India. Nel secolo successivo la committenza sarà limitata alla regione dell’Hindukush da cui passava, lungo l’asse Jaghuri-Bamiyan-Haybak, la più occidentale delle vie di transito. A est, nell’Uddiyana e nel Gandhara, ciò che restava della comunità monastica e i siddha diedero inizio all’ultima grande trasformazione della religione del Dharma, il Vajrayana. Ciò fu reso possibile grazie al sostegno offerto dall’espansionismo e, in seguito, dalla tenuta della dinastia Pala che condizionò a lungo le vicende politiche indiane. L’unico esempio di oggetto buddhista (MO203) proviene da Zabul (l’islamica Ghazni) in cui nell’VIII secolo il Buddhismo era ancora fiorente. Il declino dell’egemonia Tang in Asia Centrale nella seconda metà dell’VIII secolo contribuì all’affermazione del potere brahmanico in tutto il Nordovest indiano. A Kabul, intorno all’822, un rivolgimento di palazzo segnò l’inizio della dinastia ortodossa degli Od Shahi, che controllò la regione fino all’installarsi del potere musulmano verso la fine del X secolo. La brahmanizzazione del territorio procedette con speditezza, e del Buddhismo non rimase traccia. Alle immagini di epoca Turkii Shahi in marmo bianco si sostituì una produzione ottenuta dal più tradizionale schisto e dal marmo locale.

  • Stele funerarie islamiche

    Stele funerarie islamiche

    Le stele funerarie in marmo provengono dalle aree cimiteriali di Fustat, l’antica Cairo, e datano al IX secolo. Sono intere e in buono stato di conservazione. Cinque esemplari risalgono all’epoca in cui l’Egitto era sotto il diretto controllo degli Abbasidi, nel periodo in cui i califfi si erano trasferiti nella nuova capitale Samarra, fondata nell’836 sulla riva orientale del Tigri. Un esemplare data invece agli anni in cui il paese era governato dai Tulunidi (868-905). Alla metà del IX secolo si può ascrivere anche la settima stele, l’unica priva di data. Le stele d’Egitto rappresentano il corpus più consistente e noto della produzione funeraria dei territori islamici, sebbene quasi tutti gli esemplari siano stati purtroppo rimossi dalla loro posizione originaria. Nel XX secolo, infatti, i cimiteri, in particolare quelli di Aswan e del Cairo, furono quasi completamente spogliati delle stele, trasferite in massima parte al Museo di Arte Islamica del Cairo che ne annovera ca. 5000, molte delle quali in ottimo stato di conservazione. Le stele della collezione sono di forma rettangolare, quattro orizzontali, tre verticali. Queste ultime rappresentano il tipo più diffuso, soprattutto nei primi secoli, circostanza che permette di sottolineare l’importanza della stele MO177, ascrivibile tra le testimonianze più antiche del tipo disposto in orizzontale. Gli epitaffi, racchiusi entro cornici, occupano solo una delle due facce delle stele e si distribuiscono su righi orizzontali.

  • Metalli islamici

    Metalli islamici

    Il gruppo di metalli islamici risulta particolarmente rappresentativo della produzione metallistica di area iranica. La collezione comprende due sezioni, ascrivibili a due diverse epoche: la sezione più antica risale a un periodo compreso tra l’XI e il XIII secolo ed è coeva alla quasi totalità del vasellame in ceramica di proprietà di questo stesso Museo. L’area di provenienza corrisponde soprattutto al Khurasan, rilevante centro di produzione durante gli anni di potere dei Samanidi (819-1005), dei Ghaznavidi (977-1186) e dei Selgiuchidi (1040-1194), potenti dinastie che ebbero un ruolo molto importante all’interno dei confini del califfato islamico. Gli oggetti, in bronzo fuso, offrono una discreta varietà di forme e di repertorio ornamentale. La seconda sezione comprende invece artefatti in rame stagnato, ascrivibili al XVII-XIX secolo e provenienti dai territori iranici sud-orientali, in particolare da un’area corrispondente all’Hindustan nord-occidentale dove, a partire dalla fine del XVI secolo, apparve un’importante scuola di metallistica, fortemente ispirata a modelli iranici. Nel 2011 l’intero lotto di metalli è stato oggetto di ripulitura e restauro da parte dello staff del laboratorio di restauro e conservazione del Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Sovrintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Provincia), diretto dalla Dott.ssa Luigia Melillo e coordinato dalla Dott.ssa Marina Vecchi.

  • Ceramica islamica

    Ceramica islamica

    Tra le arti figurative dell’Islam la ceramica rappresenta una delle espressioni più interessanti per la sua valenza estetica e tecnica: espone un repertorio ricco e innovativo, ha ripreso, migliorandole, antiche tecniche cadute in disuso e ne ha sperimentato altre del tutto nuove nelle quali ha raggiunto livelli di qualità ineguagliati. La ceramica islamica è rimasta per lungo tempo catalogata per classi stilistiche facenti capo a esemplari di pregevole fattura, ma dei quali la datazione e la provenienza erano assai spesso approssimative. Un nuovo impulso alla conoscenza dell’attività dei ceramisti musulmani è venuto dalle indagini archeologiche che, a partire dal primo quarto del ‘900, hanno permesso di meglio collocare cronologicamente i materiali. Ancora oggi, compatibilmente con le difficoltà politiche contingenti, continuano le ricerche dall’Uzbekistan alla Spagna. Permangono tuttavia difficoltà a determinare il luogo di origine e la precisa datazione di alcune categorie e ciò anche in conseguenza dell’estrema mobilità degli artigiani che, per fuggire da eventi pericolosi, potevano trasferirsi da una provincia a un’altra del califfato, agevolati dall’unità linguistica e religiosa che l’Islam garantiva; a ciò va aggiunto che solo raramente i ceramisti hanno lasciato sui prodotti una firma, talvolta accompagnata dalla data. La ceramica del Museo è comunque databile tra il IX e il XII secolo ed è di produzione iranico-mesopotamica.

  • Porcellana cinese

    Porcellana cinese

    La porcellana cinese ha da sempre rappresentato un prodotto di pregio, apprezzato dal mercato straniero. La sua conoscenza in Occidente risale a epoche antiche, trasportata attraverso le vie carovaniere da mercanti arabi, utilizzata come dono prezioso a regnanti e personaggi influenti, usata come vasellame da mensa e come oggetto d’arredo. La bellezza, la lucentezza e la compattezza del materiale rendevano la porcellana oltremodo desiderabile. In Occidente si cercò, perciò, a più riprese di imitarla, ma con scarso successo. La produzione di porcellana cinese destinata originariamente all’esportazione è soprattutto quella di tipo bianco e blu, ottenuta in un’unica cottura ad alte temperature con un decoro realizzato in blu cobalto sotto un’invetriatura trasparente. La porcellana cinese del Museo è rappresentata da due gruppi: una settantina di frammenti e dieci oggetti interi. I frammenti provengono da una raccolta di superficie effettuata negli anni ‘70 del Novecento a Hormuz nel Golfo Persico. Essi sono per la maggior parte di porcellana dipinta in blu cobalto sotto coperta. La loro datazione oscilla tra il XV e gli inizi del XVII secolo, all’epoca in cui Hormuz era un importante emporio commerciale controllato dai portoghesi. I dieci esemplari bianchi e blu interi rientrano anch’essi tra la porcellana d’esportazione della fine del periodo Ming. Si tratta di vasellame da tavola databile tra la fine del XVI e il XVII secolo.

  • I templi di Baraqish

    I templi di Baraqish

    Negli anni 1989-90 e 2003-2007 la Missione Archeologica Italiana in Yemen diretta da de Maigret ha compiuto uno dei maggiori scavi estensivi in un centro urbano di epoca sudarabica nello Yemen pre- islamico. Gli scavi di Baraqish interessarono parte delle mura urbiche, il tempio di Naqrah (dio patrono della città) e il tempio di Athtar dhu- Qabd. Entrambi i templi sono di tipo ipostilo, un modello caratteristico del regno di Main e del regno di Hadramawt, e sono interamente realizzati in pietra calcarea. Il loro eccellente stato di conservazione ha permesso di studiare la tecnica costruttiva, dai sistemi di fondazione alle coperture. I templi rimasero in uso sino al I secolo d.C.

  • Il tempio di Yéha

    Il tempio di Yéha

    Il grande tempio di Yéha fu oggetto di scavi nel 1998 da parte di una spedizione francese. Lavori di rilevamento sono stati effettuati più recentemente da una missione de ‘L’Orientale’. Esso rappresenta una delle maggiori manifestazioni architettoniche sud arabiche sul suolo etiopico-eritreo di epoca pre-aksumita. Il tempio, composto di un pronao d’accesso e di un’ampia sala ipostila, è localizzato nel settore meridionale della cinta religiosa di Abba Afsé ed è relativamente ben conservato poiché restò in uso nei secoli come edificio di culto cristiano.

  • La ‘Casa A’ di Yala

    La ‘Casa A’ di Yala

    Nel 1987 la Missione Archeologica Italiana in Yemen diretta da de Maigret condusse uno scavo presso Yala/al-Durayb, un importante centro sabeo situato nell’area del Wadi Yala. Le attività di scavo interessarono una casa privata, la ‘Casa A’, localizzata nella parte alta del sito. Essa ha fornito una sequenza stratigrafica che ha permesso di ridefinire la cronologia dello Yemen di epoca pre-islamica. L’edificio è costituito da un’unità centrale composta da due piani, datata tra il VII e il VI secolo a.C., edificata su livelli archeologici che risalgono al IX secolo a.C.

  • La ‘Casa B/E’ di Tamna’

    La ‘Casa B/E’ di Tamna’

    L’edificio è localizzato in prossimità dell’angolo sud-est della Piazza del Mercato di Tamna’, antica capitale del Qataban. Il sito fu oggetto di scavo da parte di una Missione Archeologica italo-francese. Per le sue caratteristiche architettoniche e per le funzioni svolte al suo interno, questo edificio rappresenta un unicum nel panorama domestico intra muros sud arabico. Infatti, a differenza delle case della Piazza del Mercato e, più in generale, del tipico edificio sud arabico intra muros su basamento, è strutturato in modo da permettere di accedere all’interno del basamento e di utilizzare tutti gli ambienti che lo compongono.

  • Il sito di Dahan-e Ghulaman e l’edificio QN3

    Il sito di Dahan-e Ghulaman e l’edificio QN3

    Il sito di Dahan-e Ghulaman, nel Sistan iraniano, fu oggetto di scavo da parte di Scerrato tra il 1962 e il 1965. L’analisi dei materiali e delle planimetrie degli edifici, rilevabili, in molti casi, già prima dello scavo, condusse subito alla conclusione che doveva trattarsi di un imponente sito di epoca achemenide (VI-IV secolo a.C.).

  • Il sito di Dahan-e Ghulaman e l’edificio QN3

    Il sito di Dahan-e Ghulaman e l’edificio QN3

    L’edificio QN3 fu scavato già nel 1962 e gli venne attribuita una funzione di carattere religioso che tante suggestioni aprì all’epoca della sua scoperta e che ancora oggi offre un contributo molto particolare alla storia religiosa dell’Iran antico. Si tratta infatti di uno dei pochi edifici religiosi noti di periodo achemenide e presenta caratteristiche di assoluta unicità, come espressioni di contorni religiosi locali la cui centralità rituale doveva ruotare attorno a momenti di culto relativi a una liturgia del fuoco e del sacrificio di animali.

Sistema Museale di Ateneo

Il Sistema Museale di Ateneo dell’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, istituito nel 2017, comprende le collezioni del Museo Orientale “Umberto Scerrato” (MOUS) e quelle del Museo della Società Africana d’Italia (SAI). Provvede alla classificazione, tutela e valorizzazione del patrimonio di beni di interesse storico, artistico e scientifico dell’Ateneo e si avvale di una gestione unitaria che ne agevola e promuove la valenza didattica e scientifica. Collabora con enti e istituzioni locali, nazionali e internazionali.

Museo Orientale “Umberto Scerrato”
ll Museo Orientale dell’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, inaugurato il 13 novembre 2012, è dedicato all’archeologo Umberto Scerrato (1928-2004) che, negli gli anni Sessanta del Novecento, tenne il primo insegnamento di Archeologia Orientale in questo Ateneo e costituì il Seminario di Archeologia Orientale per il quale acquisì i primi materiali per la realizzazione di un museo didattico.
Le collezioni del Museo comprendono un’ampia sezione islamica costituita da stele funerarie rinvenute a Fustat (Egitto, IX secolo), vasellame in ceramica e metallo (area mesopotamica e iranica IX-XVIII secolo), reperti provenienti dagli scavi italiani a Ghazni in Afghanistan (XI-XII sec.) e alcuni lotti di monete, di cui uno costituito da calchi in gesso.
I materiali più antichi della raccolta museale appartengono alla sezione dell’Africa orientale, con reperti ceramici, litici e naturalistici dal Sudan (VI-I millennio a.C.), dall’Eritrea e dall’Etiopia (I millennio a.C. – I millennio d.C.) e a quella del Vicino Oriente antico con reperti litici dall’Arabia settentrionale (VIII-VI millennio a.C.), sigilli dall’antica Mesopotamia e dalle regioni vicine (III millennio a.C. – V secolo d.C.), un’iscrizione elamica su mattone (XIV secolo a.C.), inserita in via sperimentale in una ricostruzione di una parete e con alcune riproduzioni, realizzate con stampa 3D, di vasellame dell’Arabia orientale (IX-I sec. a.C.).
L’India di Nordovest è rappresentata da alcune sculture (VIII-X secolo).
La sezione cinese comprende la grande carta della Cina realizzata da Matteo Ripa (1682-1746), missionario alla corte dell’Imperatore Kangxi e fondatore del Collegio dei Cinesi, da cui nacque Università “L’Orientale”. Sono, inoltre, esposti esemplari integri di vasellame e frammenti, provenienti da Hormuz, in porcellana cinese in bianco e blu (XV-XVII secolo); una statua lignea rappresentante il bodhisattva Guanyin e una scultura in bronzo dorato del Buddha Amitayus, datata al 1770. Due calligrafie giapponesi degli inizi del ‘900 completano la raccolta.
Alcuni plastici di architetture civili e religiose dell’Etiopia, dello Yemen, del Sistan iraniano, della Cina e del Giappone sono ospitati in diverse sale a scopo didattico.

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Layout 1

Il Museo della Società Africana d’Italia
Nata nel 1880 come Club Africano (1880-82), la Società Africana d’Italia (SAI) fu un sodalizio di carattere geografico-commerciale fondato da alcuni dei nomi più in vista della società napoletana dell’epoca.
La SAI fu promotrice di una serie di iniziative di carattere scientifico, commerciale e divulgativo, sostenendo progetti di esplorazione e di ricognizione commerciale, in parte anche realizzati, organizzando conferenze, promuovendo corsi di lingue, in particolare presso il Regio Istituto Orientale, oggi Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, dotandosi di un proprio Bollettino.
Nel corso della sua attività la SAI accumulò un considerevole patrimonio librario e un patrimonio documentario costituito da una fototeca e da una collezione etnografica, botanica, zoologica e merceologica che costituirono una vera e propria raccolta museale. Nel dopoguerra, divenuta inagibile la sede della Società, gli archivi, la biblioteca e le collezioni, dopo essere stati temporaneamente conservati alla Mostra d’Oltremare, furono depositati presso l’allora Istituto Universitario Orientale.
Il Museo della SAI, inaugurato il 28 ottobre 2014, rispecchia appieno un approccio olistico alla realtà africana tipico della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento. Fra i materiali etnografici, che non provengono solo dalle regioni più direttamente connesse agli interessi coloniali italiani, si segnalano numerose armi, strumenti musicali, ornamenti personali, strumentario domestico e artigianale e due imbarcazioni. Vi sono, inoltre, alcuni reperti archeologici di cui cinque mummie di gatto di epoca tolemaica provenienti dalle necropoli d’Egitto, rappresentano la principale testimonianza.
La presenza nel Museo della SAI di raccolte di vari tipi di rocce e minerali, di fibre, di pelli lavorate e non, di vaste collezioni di semi di piante coltivate e selvatiche, di gomme e di campioni di resine e di ampie collezioni zoologiche evidenzia come fosse sempre presente una particolare attenzione alle risorse potenzialmente sfruttabili dal punto di vista economico.